Vercelli: i palazzi Centori e Tizzoni, due tesori dimenticati Testi utilizzati per i pannelli illustrativi collocati in Palazzo Centori GIORNATA DI PRIMAVERA DEL FAI 1999 a cura di Laura Berardi
Case Centori e Tizzoni: due monumenti paralleli della storia e della cultura cittadine.
Sul principale asse viario cittadino, il corso Libertà, nella zona che, essendo in uscita per Milano e Pavia, fino all'Ottocento è stata caratterizzata da un ricco insediamento sociale ed economico, si affacciano, a pochi passi l'uno dall'altro su fronti opposti, due fra i più notevoli edifici civili di Vercelli: Casa Centori e Palazzo Tizzoni. Abitualmente essi vengono identificati soltanto nelle loro parti maggiormente in evidenza e di pubblico accesso: la torre medievale e la "Sala Tizzoni", che insiste su di un breve prospetto dell'Ottocento in stile neo-quattrocentesco e mostra affreschi manieristi nel suo interno, nell'un caso, e, nell'altro, varcando l'ingresso al Centori dalla facciata ricostruita in forme rinascimentali negli anni '30, il brano autentico del suo cortile di rappresentanza. In realtà, entrambe le dimore sono organismi residenziali molto più estesi e complessi, sui quali gli interventi di modificazione si sono in parte stratificati e in parte sostituiti nel corso del tempo, generando due tra le più significative testimonianze della storia urbanistica, sociale, politica, artistica e culturale vercellese, soprattutto in relazione ai suoi secoli più rappresentativi, dall'età comunale - quando Vercelli è uno dei più importanti Comuni dell'Italia Settentrionale- a tutto il Cinquecento. I Tizzoni e i Centori erano tra le più antiche e potenti famiglie locali. Entrambi di parte ghibellina, sono attestati nella medesima zona -una sorta di presidio politico del territorio- e proprio nel sito degli edifici tuttora esistenti, almeno a partire dal Duecento; così ci è documentato dalla pergamena del 1292 che cita la "platea Ticionorum" e dalla fonte del 1224 ove, con preciso riferimento topografico, vengono nominate "casam et turrem Centoriorum". I due edifici andarono così strutturandosi come nuclei abitativi organizzati in più fabbricati e spazi aperti interni, destinati ad accogliere la famiglia nobile e le sue varie dipendenze sussidiarie, in un insediamento autonomo e in sé coeso; vere e proprie case-forti, dominate e protette dall'insegna della torre. Da quel momento, in entrambi si succederanno vari interventi -sia costruttivi che di riorganizzazione funzionale e di abbellimento delle diverse parti- condotti in fasi differenti e man mano rispondenti ai bisogni e agli orientamenti stilistici del momento, che vanno dal lungo periodo medievale, gotico e tardogotico-quattrocentesco, all'evoluzione rinascimentale tra Quattro e Cinquecento e tutto il XVI secolo. Nel corso del Seicento entrambe le famiglie si estingueranno.
Palazzo Tizzoni, ben oltre la facciatina del salone affrescato, è comprensiva di tutto il prospetto sulla piazza omonima e di un identico fronte anche sul corso, mentre nell'interno si espande fra più coerenze.
I restauri su queste due cortine hanno saputo visualizzare il colorito e fiorente aspetto che la dimora ebbe ad assumere nel Quattrocento, nella sua ultima fase medievale, mantenendo in vista le numerose traccie superstiti in cotto, reperite sotto i rifacimenti degli intonaci sette-ottocenteschi. Sono leggibili due ordini di finestre tardo gotiche, bifore contenute entro un arco acuto, più esili e identiche alle aperture della torre quelle dell'ordine superiore. Dovevano avere un gran risalto, allineate sopra le bande fiorite dei marcapiani e decorate da larghe fasce di terracotta, ove si alternano eleganti fogliami e cordoli spiraliformi; completavano il festoso effetto cromatico i timpani dipinti delle finestre, ben osservabili nei resti di una delle aperture sul corso Libertà, a fingere colorate venature di marmi. Il volume dello stabile dei Centori è invece delimitato dal prospetto principale sul corso e da due fianchi laterali, uno su via Giovenone, l'altro sul suggestivo passaggio coperto del "Volto dei Centori", che lo connette alla maglia urbana agganciandolo ai corpi limitrofi. Sono proprio le sue vedute arretrate verso l'interno che consentono la percezione di tutto l'insieme architettonico, generato da un'articolazione e da addizioni su più corti. Esso rivela la sua consistenza medievale con inequivocabili e suggestivi segni costruttivi, morfologici e stilistici, che si sono sovrapposti e aggregati, nel corso della vicenda edilizia complessiva, in periodi e con caratteristiche diverse: la particolare tessitura muraria a vista, gli elementi spontanei tracciati dall'orditura del mattone, finestre archiacute in cotto, delle quali una, di cui si dirà fra breve, molto raffinata. Da questi angoli di visuale si rintracciano infine ben due torri: quella possente e quadrata, inedita e forse la stessa del documento dugentesco, e quella ottagonale trecentesca. Il cotto fa da elemento guida nella lettura delle due dimore; il suo impiego, tipicamente padano, dalla fondamentale funzione costruttiva dei fabbricati del Centori, a quella festosamente ornamentale sulla facciata Tizzoni, che si accomuna a tanta parte dell'edilizia quattrocentesca milanese, pavese e lodigiana, passa, infine, ad esprimere l'equilibrio strutturale, la misura ritmica, i lineamenti agili e sobri dello spazio architettonico rinascimentale nel famoso cortile dei Centori e, dall'esempio di questo interno, nella serie delle finestre di tutto il prospetto sul corso, nitidamente squadrate e profilate.
Per seguire, nell'occasione di questa giornata mondiale della"terra", il particolare tema del cotto, vanno specificamente segnalati gli illuminati restauri condotti dalle famiglie proprietarie Cassi e Pasquino-Govi sulle porzioni di casa Centori poste verso l'interno e affacciate sul vicolo -passaggio a suo tempo interno, strada consortile e non pubblica- in parte coperto dal "volto dei Centori". Essi hanno rimesso in piena luce non pochi elementi strutturali dell'architettura, vani, loggiati, rampe di scale nelle due torri già sopra menzionate, nonché numerosi particolari decorativi di estremo interesse. E' forse la più bella bifora vercellese conosciuta al momento, quella che si apre sulla prima corte, accessibile dal "volto" e oggi visitabile per gentile concessione del sig. Cassi; tale spazio -non coperto, a differenza del più famoso cortile contiguo- da un lato confina con l'involucro di quest'ultimo e nell'alzato degli altri due si presenta con logge architravate tardocinquecentesche. La residua manica medievale, plausibilmente trecentesca come la torre posta a baluardo, grazie al recente restauro oggi rivela una finestra adorna di cotti così finemente lavorati e raffinati, sia nella tipologia decorativa che nella partitura senza eccessi, da far pensare ad una datazione che preceda la sovrabbondanza ornamentale quattrocentesca e si riferisca ad un periodo del Trecento vercellese alquanto florido e colto.
Tornando al cortile di proprietà comunale, che della dimora Centori è oggi l'unica parte pubblica, neppure di questa porzione si conoscono gli artefici, per quanto essa sia un cammeo architettonico, certo appositamente commissionato ad artisti di primaria importanza, per risultati sicuri e di alto profilo; elegante luogo gentilizio, vano di rappresentanza con accentuato valore simbolico, che, nell'accogliere e ospitare con amenità, subito doveva accreditare un'immagine colta e prestigiosa della famiglia residente. Eretto su due leggeri ordini di loggiato a tutto sesto, quello superiore ad archi ridotti e raddoppiati (mentre l'ultimo piano finestrato è una sopraelevazione posteriore), il vano è isolato in una sua atmosfera di rarefatta suggestione, scandito, con cromatismi caldi e raffinati, dalla ritmica alternanza di un apparato decorativo ricco ma né affastellato, né ridondante. Vi si stagliano le luminose linee dei profili in cotto, tesi a scorrere su archi e trabeazioni, sfilano i variegati capitelli, che armonizzano scudi araldici con eleganti elementi ornamentali, si succedono timpani dipinti e fasce pittoriche, si ordinano, con sequenze illustrative continue e ripetute, motivi iconografici e letterari del repertorio classico: finte modanature, medaglioni di Cesari con spunti ritrattistici, elementi di grottesca, temi e allegorie mitologiche, fra cui sorprendenti divinità marine e -per ovvia analogia etimologica- scene di cenvÛuri. Il cortile è stato sempre ricondotto alla cultura milanese pienamente bramantesca, nel momento in cui, sul finire del Quattrocento, Donato Bramante, tornato dal soggiorno romano, emancipa la tradizione lombarda dagli eccessi decorativi e la conduce sotto il segno del proprio nitore rinascimentale, né rigidamente spoglio, né monumentale. La sua impronta e la promozione della corte milanese crearono un eccellente gruppo di artisti, Bernardo Zenale, Bernardino Butinone e il suo miglior allievo, pittore e architetto, detto il Bramantino, contornati da comprimari validissimi e versatili. Senza poter attribuire la paternità del cortile ad un preciso e unico autore, la sua identità culturale dovrebbe comunque collocarsi in quella cerchia lombarda, nella cui produzione, in effetti, trovano precisi riscontri sia il modulo architettonico che molti degli elementi plastici e pittorici utilizzati nell'aulica pagina vercellese. Le stesse fonti documentarie attestano in Vercelli varie presenze -senza però riferirle ad un cantiere presso i Centori- provenienti da quell'area figurativa, quali alcuni maestri impegnati nel Duomo di Milano e i fratelli De Donato, plasticatori e pittori di fama. Inoltre, stretti contatti fra gli artisti locali con quelli milanesi, cremonesi, lodigiani, e della Lombardia occidentale in genere, più volte sono stati attestati, fra tutti quello emblematico e importante fra Bramantino e il più autorevole esponente della scuola pittorica vercellese, Gaudenzio Ferrari. Del resto, i rapporti vercellesi con l'area lombarda erano stati sempre consolidati dallo stretto legame politico intercorso tra Vercelli e Milano, dall'età comunale a quella viscontea; quando la città fu ceduta ai Savoia per contratto matrimoniale, nel 1427, non venne certo a interrompersi quella tradizionale gravitazione. Il denso contesto che sta dunque a monte e a ridosso della preziosa corte rinascimentale la rende meritevole di nuovi e specifici interventi di studio e di restauro, che potrebbero meglio illuminare gli intrecci e i percorsi culturali presenti e testimoni dell'effettiva realtà figurativa del momento. Accanto e in congiunzione col panorama culturale lombardo, non va neppure trascurato, come quadro di riferimento e di confronto per l'apparato pittorico del Centori, lo specifico ambito vercellese, che comunque manifestava una autonoma capacità espressiva.
Gli affreschi, infatti, vanno pure a collocarsi nella ricca serie locale di grottesche e più in genere di pittura profana colta, classica e mitologica, che si distende sulle pareti di molti edifici civili e persino religiosi: Casa Alciati, Palazzo Verga, Palazzo Arborio Biamino, San Cristoforo, Arcivescovado e altri frammenti ancora. E' questo un percorso di erudizione classica e aulica, aggiornatissimo per il tramite dell'umanesimo lombardo, ma anche in diretta sui più prestigiosi esempi coevi della pittura romana, che la cultura figurativa vercellese seppe svolgere e diffondere, tra lo scorcio del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, ad opera di artisti quali Eusebio Ferrari e del suo più grande esponente, Gaudenzio Ferrari, come, più tardi, di Bernardino Lanino. Questo intenso fervore locale, la presenza di una produzione ricca e variegata, stanno ad indicare più di una direttrice di sviluppo culturale qui, a Vercelli, sia per la posizione geografica, sia per la mobilità e i contatti multipli dei suoi artisti -il viaggio romano di Gaudenzio, la già ricordata sua amicizia col Bramantino- e dei suoi committenti biellesi, introdotti a Roma, e vercellesi. Ad esempio, proprio tornando ai due monumenti in oggetto, val la pena di ricordare la parentela dei Tizzoni con la famiglia torinese dei Della Rovere, che per prima, col vescovo Domenico, aveva introdotto le novità del Rinascimento romano in terra piemontese con l'edificazione del Duomo di Torino. Non ci sarebbe dunque da stupire se, potendo reperire in futuro i perduti affreschi di Casa Tizzoni citati dalle fonti, li scoprissimo dialogare sul terreno classicheggiante con quelli di Palazzo Centori. Comunque sia, il dato certo è la capacità -comunque elevata- di elaborazione culturale delle migliori tradizioni e scuole che Vercelli manifesta, o in forme autonome, o attraverso mediazioni e meditazioni dall'ambito lombardo e romano, per certo, o forse da altro ancora. Sicuramente, in quella densa congiuntura rinascimentale, Vercelli non è né periferica, né subalterna. Per illuminare il fertile intreccio di quel periodo, ad ulteriore ricerca e approfondimento storico-critico e nel solco dei proficui studi ultimamente condotti sulla produzione locale, gioverà un'accurata lettura dell'apparato figurativo e decorativo nel nostro luogo, sia sotto il profilo iconografico che iconologico e stilistico. E' per esempio interessante, riguardo a quest'ultimo aspetto, il tratto sintetico e materico che caratterizza alcuni brani, una sorta di riproposizione dell'antica tecnica compendiaria, con un intento antiquariale misto alla sperimentazione linguistica, all'interno di un insieme di rimandi e contaminazioni. Inoltre, interessantissimi frammenti di altri affreschi del medesimo genere profano e colto, manifesti simbolici che esprimono e descrivono sensibilità narrativa, gusto ed erudizione, sono venuti alla luce negli ambienti privati del Centori, ove sono stratificate più fasi costruttive e d'uso; la loro fascinosa presenza, totalmente inedita, e la data di esecuzione che, iscritta in una cartella manierista, pone la vitalissima testimonianza pittorica nel secondo Cinquecento inoltrato, non fanno che sottolineare l'opportunità di ulteriori e approfondite indagini, rendendo anzi ancor più stimolante un itinerario di studio e nuovi passi sugli sviluppi pittorici vercellesi, oltre il panorama storico-artistico e i termini cronologici tradizionali, nonché sulla committenza, sul gusto e sui costumi culturali del "nostro" Rinascimento.
E' presso Palazzo Tizzoni che va a concludersi la parabola prestigiosa delle due dimore storiche; decadendo, con l'estinzione dei rispettivi casati, le spinte innovative e di riaffermazione dell'immagine, esse non godranno più di attestazioni importanti, e volgeranno progressivamente verso un destino edilizio ordinario e frantumato. L'ultima impronta di nobiltà e di intenzionalità estetica è data dall'impresa nel salone al piano terreno della casa (da qualche anno chiuso al pubblico), affrescato nella volta da un'accolita di dei e muse in Parnaso. Siamo ormai entrati nel primissimo Seicento e l'autore, Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, casalese attivo in tutto il Piemonte, qui si rifà al manierismo dell'Italia centrale, che è un modello in auge e direttamente in opera presso i cantieri della corte di Torino, ormai ben avviata a costruirsi un'immagine di rango europeo. La capitale sabauda è ormai per Vercelli l'imprescindibile polo di riferimento, il centro culturale dominante e al quale la città sarà sempre più subalterna. Qui però il Moncalvo, memore della grande lezione della scuola pittorica locale, di Gaudenzio Ferrari e di Bernardino Lanino, tratta il tema aulico e letterario senza gli eccessi di maniera, ma con morbida e affettuosa bellezza e secondo gli accostanti modi della miglior tradizione vercellese. La casa -o solo una porzione?- da poco non appartiene più alla famiglia Tizzoni, ma ad un altra famiglia emergente, non ancora individuata, che si fregia dell'insegna araldica ripetutamente dipinta fra le auliche dolcezze del Parnaso vercellese. Il complesso edilizio andrà lottizzandosi e, con nuove vesti barocche, si adeguerà ad un uso abitativo non popolare, ma sgravato da riferimenti col passato del sito e senza esigenze di memoria storica; perderà così la sua connotazione unitaria e la relativa sua ultima immagine di fasto. Sarà l'Istituto di Belle Arti, nella seconda metà dell'Ottocento, ad iniziare una sua lenta e parziale valorizzazione, innanzitutto col recupero del "Parnaso" ad opera dell'abate Malvezzi, uno dei più importanti restauratori dell'epoca; l'operazione non a caso fa parte dell'opera di tutela intrapresa dall'Istituto sul patrimonio culturale locale. Vi si insedierà la Sezione Femminile della Scuola e la prima pubblica Pinacoteca vercellese; quella porzione, allora come oggi, è l'unica disponibile al pubblico godimento, sperando che venga presto riaperta all'uso collettivo.
Laura Berardi
Bibliografia particolare e generale:
A.M.Brizio, Catalogo delle cose d'arte e di antichità d'Italia. Vercelli, Roma 1935; F.Avogadro di Vigliano, Antiche famiglie vercellesi, Vercelli 1961; AA.VV., Opere d'arte a Vercelli e nella sua provincia. Recuperi e restauri 1968/'76, Torino 1976; L.Avonto, Vercelli guelfa e ghibellina, Vercelli 1978; P.Astrua in AA.VV., Guida breve al patrimonio artistico delle provincie piemontesi, Torino 1979; AA.VV., Aspetti urbanistici della città nei secoli XVIII e XIX, Vercelli 1990; G.Bo-M.Guilla, Vercelli. Invito a scoprire la città in 9 itinerari, Vercelli 1994 e succ.; L.De Fanti in AA.VV., Pittura murale in Italia. Il Cinquecento, Bergamo 1997, con ampio aggiornamento bibliografico.
GIORNATA DI PRIMAVERA DEL FAI 1999
Testi utilizzati per i pannelli illustrativi di Palazzo Centori a cura di Laura Berardi
TESTO A (primo pannello) La famiglia dei Centori è documentata fra le più antiche e importanti della città. Di parte ghibellina, come quella dei Tizzoni, essa è come quella attestata, fra il XII e il XIII secolo, nella zona suburbana detta "burgus Vercellarum", che era presto sorta oltre le mura precomunali della città. E' quella l'area dove ci troviamo. La nuova compagine edilizia che amplia Vercelli in direzione est e sud-est (Pavia-Milano e Casale) si connota, dunque, con un esteso acquartieramento, di certo, almeno dal XIII sec. in poi, politicamente solidale, con autonomia di sussistenza e fortificato. Dell'esistenza di un insediamento dei Centori, improntato a costituire una casa-forte organizzata in più fabbricati e spazi aperti interni, che col tempo verrà accresciuta, modificata e qualificata da elementi architettonici via via stilisticamente aggiornati, si ha già notizia in un documento del 1224, ove si cita, a fronte dell'abitazione addossata alla porta di San Giuliano (la chiesa posta qui davanti), "...casam et turrem Centoriorum...". A questo più antico nucleo sembra poter appartenere la torre quadrata posta a pochi metri dal nostro cortile, nella parte più interna e protetta dell'agglomerato Centori, che l'iniziativa F.A.I. consente di visitare. Le due corti e gli ambienti privati che visiteremo documentano diverse fasi costruttive e abitative, le quali tutte, insieme col nostro cortile più famoso e con un'altra ala al momento inaccessibile, documentano lo sviluppo e il prestigio della dimora dei Centori, dal XIII secolo a tutto il Cinquecento. Oltre a questo compatto organismo, che dal corso Libertà si estende tra il Volto dei Centori e via Giovenone (prima degli aggiustamenti urbanistici ottocenteschi molto più stretta e destinata a collegamenti interni), nel tessuto urbano contenuto tra questa e via Felice Monaco si conservano tracce di epoca e di tipologia consimili, così da rendere suggestiva e approfondibile l'idea che la zona fosse tutta sotto il controllo, l'egida e il modello del ramo famigliare dominante, all'interno del medesimo e unico casato dei Centori.
TESTO B (secondo pannello) Dopo l'estinzione della famiglia Centori, nel Seicento, l'insediamento perderà il proprio senso unitario e non vi si realizzeranno mai più interventi architettonici significativi e qualificanti. Al contrario, si parcellizzò e venne sostituito da adeguamenti di edilizia minore o decisamente popolare, solo in parte rimossi e soltanto a cominciare da pochi decenni fa e ancora in anni recentissimi, grazie alle sensibilità individuali degli attuali proprietari. Molto resterebbe ancora da fare, se il Comune, con una visione organica, guidasse a valorizzare il prestigio storico di quest'area della città. Nonostante l'interesse mantenuto almeno dal cortile rinascimentale in cui ci troviamo, ovvero dalla parte più artisticamente connotata, nonché garantita nei suoi requisiti di nobiltà dalle numerose insegne che la fregiano, il sito fu nell'insieme destituito del proprio valore e persino questo suo episodio emergente fu lasciato, sino al 1934, del tutto sminuito e fuori evidenza, perché ormai nascosto da un'edilizia dall'aspetto ormai "incolore", soffocato dai tamponamenti, oltre un "oscuro e stretto andito". Ce ne parla Carlo Nigra, insigne storico dell'architettura e curatore di molti restauri piemontesi, nel pubblicare il suo "rifacimento delle facciate di Casa Centoris", intervento condotto dopo l'acquisto da parte del Comune, per darne degna e pubblica valorizzazione. La struttura del cortile venne liberata dalle modificazioni dell'improprio uso abitativo, così da riguadagnare l'immagine originaria, che aveva un'elevata funzione di rappresentanza, la veste del luogo ameno, ospitale e colto, centrale rispetto agli altri fabbricati, il giusto valore spaziale. Il tentativo del Nigra fu senz'altro anche quello di restituire al vano un alloggio edilizio che fosse di sua pertinenza e ben riconoscibile, adottando la sola forma allora consentita da quell'unica porzione pubblica. Cogliendo dunque la relazione del cortile con le cortine sul corso e su via Giovenone, progettò quelle, dopo aver constatato la perdita delle facciate originarie, secondo i moduli e gli apparati decorativi della medesima architettura lombarda presente nell'invaso interno e dopo aver peraltro condotto un accurato studio delle dimore tra Quattro e Cinquecento di quell'area, dipinte anche all'esterno. Questa riproposizione dei prospetti Centoris, del tutto inventata ma filologicamente corretta, non andò a compimento; restò priva delle previste pitture, come il Nigra stesso ci informa in appendice e sottintendendo un clima controverso e polemico. Per noi, oggi, restano tuttavia validi l'assetto raggiunto e l'idea, se pur dal Nigra espressa in una accezione puramente formale, di ricontestualizzare il cortile nel corpo delle sue coerenze e connessioni (così come poi fa in parte la Brizio già nel 1935, nella sua fondamentale opera su Vercelli) e di darne una lettura storico-culturale, in un ampio quadro di riferimento. Su quella linea, di aggregazione e di ricomposizione diacronica del monumento, si sono gradualmente mossi, negli ultimi vent'anni, i meritori restauri privati, che sarebbe auspicabile proseguire.
TESTO C (terzo Pannello) Il cortile è dunque la parte più rilevante e integra della dimora dei Centori. Esso è un validissimo esempio dello stile fondato dal Bramante, che trasformò l'architettura lombarda, verso la fine del XV secolo, dai lineamenti tardogotici di profili e fioriti cotti ornamentali al diverso equilibrio rinascimentale, sia strutturale che decorativo. Il passaggio è visibile a colpo d'occhio nella marcata differenza tra la facciata con residui di bifore e marcapiani di palazzo Tizzoni, nella sua ala che svolta sul corso, e il prospetto di Casa Centori, ora visibile anche in un suo tratto originario; pienamente aderente all'impronta bramantesca risulta in particolare l'invaso in cui ci troviamo, importante ma alleggerito dalle logge a tutto sesto lievemente ritmate, celebrativo ma con una misura né sfarzosa, né monumentale. Caratteri e percorsi tipicamente lombardi sono, fra Quattro e Cinquecento, ben presenti in Vercelli e attestati dalle fonti, grazie agli stretti contatti, alle frequentazioni, ai legami culturali fra gli artisti vercellesi e quelli operanti in Milano e nell'area d'influenza, Lodi, Vigevano, Cremona, la Lombardia occidentale. Maestri impegnati nel Duomo di Milano, ad esempio, sono documentati a Vercelli, ove risultano lungamente soggiornanti i fratelli De Donato, pittori e plasticatori di fama; Gaudenzio Ferrari stesso ha famigliarità e comuni esperienze con Bramantino, architetto e pittore milanese migliore allievo e il più vicino a Donato Bramante. Senza poter attribuire la paternità del cortile ad un preciso e unico autore, comunque la sua identità culturale si colloca in quell'intorno di artisti vivaci e versatili, che, sotto l'impulso promozionale della corte milanese, gravitavano in area bramantesca, fra Zenale, Butinone e il più giovane Bramantino, con varie altre aperture e sollecitazioni. Precisi riscontri con le produzioni di quel contesto si trovano nei moduli architettonici, negli elementi plastici e pittorici (medaglioni, grottesche, finte modanature) dell'aulica pagina vercellese, persino nei capitelli araldici e dalle svariate ornamentazioni. L'apparato figurativo del nostro spazio - dalle allegorie allusive dei Centauri alle divinità marine, dai putti negli intrecci fitomorfi e dalle chimere al ritrattismo dei profili dei "Cesari"- meriterebbe di essere puntualmente studiato sotto il profilo icografico, iconologico e stilistico e non soltanto in riferimento con l'ambiente lombardo, ma anche e congiuntamente con lo specifico quadro vercellese. Infatti, gli affreschi si collocano pure nella ricca serie locale di grottesche e più in genere di pittura profana colta, classica e mitologica, che si distende, dal primissimo Cinquecento e ad opera di Eusebio Ferrari e Gaudenzio, sulle pareti di molta edilizia civile e persino religiosa. Tracce di altri affreschi del medesimo genere, venute alla luce proprio qui, negli ambienti del complesso Centori oggi visitabili, e risalenti al secondo Cinquecento, non fanno che rendere ancor più stimolante un itinerario di studio sugli sviluppi pittorici vercellesi ulteriori a quelli già ben noti, nonché sulla committenza e sui costumi culturali del "nostro" Rinascimento.
DIDASCALIE (allestimento dei pannelli fotografici)
Viste sulla porzione di Casa Centori in asse e retrostante al luogo in cui ci troviamo. Dei cortili e degli fabbricati in cui si articola la struttura complessiva, è questa la parte non accessibile e in stato di abbandono. Vi si notano: l'antica torre quadrata (XII-XIII sec.), il cui interno presenta più fasi architettoniche e d'uso successive, e l'insegna araldica dei Centori, in bassorilievo bicromo. Sullo sfondo, al di là di un'altra corte non visibile, si erge la copertura finestrata del nostro cortile rinascimentale, posta in epoca più tarda.
Disgiunto dal blocco di Casa Centori -in seguito alle demolizioni e agli allineamenti ottocenteschi- l'isolato contiguo e compreso tra la via che li separa e via Felice Monaco (strada pubblica già nel XIV sec., diretta alla cittadella), conserva interessanti e del tutto inedite tracce architettoniche, coeve e affini alle evidenze del più noto corpo edilizio.
Sono una torre a pianta ottagonale (come quella che vedremo nell'altra corte), una più arcaica torre quadrata ed un loggiato archivolto, con una trabeazione in cotto, snelle colonne in pietra e capitelli fogliati: analogo, ma più slanciato del cortile di casa Alciati, appare come una versione in forme semplificate e meno auliche del nostro. La vicinanza fisica, cronologica e stilistica di queste evidenze con quelle del complesso del Centori suggerisce l'idea di un'origine comune, di un unico processo insediativo, estesosi su un'area ampia e unitaria e a presidio di una zona ben definita.
Tre prospetti di Casa Centori a confronto.
Il primo, curato dall'arch. Nigra nel 1932, rileva la facciata prima del suo intervento ricostruttivo. La disorganicità delle aperture mostra come il partito architettonico rinascimentale col tempo fosse andato perduto.
Il secondo è il progetto del Nigra per il rifacimento in stile del 1934; l'apparato decorativo non venne mai realizzato, se non nell'ordine di bugne, ora però smarrite.
Il terzo è il rilievo, eseguito nel 1972 dallo studio Isola-Villani, della facciata del Nigra quale effettivamente eseguita. Ad essa segue, sulla linea del corso, l'autentico prospetto rinascimentale dell'edificio, messo in luce da quel restauro degli anni '70 sul segmento di proprietà privata. Rilievi 1972, per l'intervento di restauro su tutta la porzione di Casa adiacente alla fabbrica del nostro cortile.
La planimetria mostra il carattere aggregativo dei vari locali intorno alla corte e individua l'esistenza di un colonnato (sec. XVI), parzialmente visibile nella caffetteria. Il rilievo di uno degli affacci interni rileva invece la compresenza di diverse fasi costruttive e dunque di stili architettonici differenti: la torre è medievale, forse trecentesca, mentre la loggia architravata è tardo-rinascimentale (posteriore, pertanto, al nostro cortile).
Cortile di Palazzo Besta. Teglio, prov. di Sondrio. Le fortissime analogie con nostro furono rilevate dall'arch. Nigra nella sua ricognizione sulle dimore del primo rinascimento lombardo, condotta per il proprio progetto di facciata. La fotografia compare, per l'appunto, sull'edizione con la quale il Nigra pubblica il proprio intervento, "Il rifacimento delle facciate di Casa Centoris in Vercelli", Torino 1934.
Cerchia di Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino, "Enea alla Corte di Didone". Per una felice -ma forse non casuale- coincidenza, il prezioso dipinto è conservato nel museo "Francesco Borgogna" (sala V), a pochi passi dal nostro itinerario. L'autore è del medesimo ambiente figurativo lombardo al quale si riconduce anche il nostro cortile. Del resto, il clima culturale è identico: la tavola illustra un tema profano e di erudizione classica, come le pitture del Centori, che a sua volta è ambientato sotto una loggia bramantesca, ritmata dai profili in cotto e del tutto simile alla nostra anche per proporzioni e valori cromatici.
Il cortile quattrocentesco di Casa Alciati (Museo Leone) rappresenta il primo esemplare della serie vercellese di loggiati rinascimentali; il nostro ne è l'espressione più prestigiosa, l'emblema dell'importanza culturale della città in quella sua felice stagione. Molte altre corti, ivi comprese l'altra della Casa Centori e quella di Palazzo Tizzoni (visibili soltanto nella presente occasione), restano a testimoniare un tenore qualitativo alquanto elevato e piuttosto diffuso.
Tavole originali, tratte dalla raccolta "Il Cortile dei Centoris a Vercelli", con i rilievi dell'arch. Gariboldi del 1919. In questo lavoro vengono poste in evidenza soprattutto le eleganti invenzioni che caratterizzano ciascun capitello della loggia inferiore, animandone la sequenza.
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